Ingombranti, pesanti, costosi e un po’ (tanto) tamarri: si chiamavano Boomboxes ed arrivarono in Italia nella seconda metà degli anni ’70. Lo fecero sull’onda del successo americano, dove spopolavano tra le strade di New York, sotto l’appellativo alternativo di Ghetto Blaster, elementi essenziali della cd. break dance.
Studio di registrazione indoor e piattaforma distributiva outdoor
Infatti, i Boomboxes costituivano l’equipaggiamento di ogni esponente dell’esordiente hip-hop che poteva portare con sé la musica autoprodotta (erano essi stessi degli studi di registrazione casalinghi) per farla ascoltare agli altri (o meglio, imporne l’ascolto, visto l’impatto sonoro che offrivano).
A metà tra l’impianto stereo casalingo e la radio portatile
Ibridi tra il classico impianto hi-fi casalingo e la radio portatile, i Boomboxes raggruppavano in un unico apparato più fonti sonore (o di elaborazione sonora).
I componenti
Segnatamente: un amplificatore con suggestivi misuratori del livello sonoro a lancette (Vu Meter, successivamente sostituite da ipnotiche – per i tempi – barre led), uno (o spesso due) registratori stereo 7 (la doppia piastra serviva alla duplicazione delle cassette e solo sul finire degli anni ’80 sarebbe stata affiancata o sostituita da un lettore cd), un sintonizzatore FM/OM/OC, un equalizzatore a 3, 5, 10 bande (o comunque un controllo di tonalità alte, medie e basse) ed ingressi e uscite di linea, microfono e phono (giradischi).
Le casse acustiche
Ma, soprattutto, due (o più) potenti casse acustiche anche separabili (nei modelli più recenti) suddivise in woofer, midrange e twitter, governate da un circuito crossover che indirizzava alle tre tipologie di altoparlanti i suoni bassi, medi e alti.
Energivori
E infatti la potenza sonora (fino a 100W) era la principale caratteristica. Insieme a quella di apparati energivori, visto il consumo notevolissimo di pile (oltre a 10 o più batterie tipo D).
Boomboxes: l’arma preferita di un’intera generazione
Anche se il primo modello embrionale è storicamente fatto risalire al 1966 ad opera della Philips, con il nome Radiorecorder, inizialmente i Boomboxes furono prevalentemente realizzati da produttori giapponesi (JVC, Sharp, Aiwa, Sanyo, Sony, Hitachi, Marantz, Panasonic, Toshiba, ecc.).
In tutti i cataloghi
Tuttavia, in breve, tra la fine degli anni ’70 e la prima metà degli ’80, i Boomboxes entrarono nei cataloghi di tutti i costruttori di apparati audio (e non solo), sotto la definizione di “l’arma preferita di un’intera generazione”.
Estremismi
Come sempre accade con le mode, si arrivò presto agli estremi, con Boomboxes che pesavano anche più di 12 kg.
Portatili per modo di dire
Quindi difficilmente risultavano concretamente portatili, diventando di fatto sostitutivi degli impianti hi-fi, cd. “compatti” (tutto in uno).
La fine
I maxi radioregistratori si eclissarono gradatamente negli anni ’90 insieme agli stereo ed al culto della qualità musicale al cospetto dell’evoluzione di un’altra forma di musica portatile.
Davide uccide Golia
Quella, all’opposto, mini: il walkman e le sue evoluzioni digitali dove le cuffie prendevano il posto degli ingombranti altoparlanti.
Ancora in commercio oggi, i Boomboxes costituiscono però un mercato di nicchia.
Podcast
Qui per ascoltare il podcast dell’articolo. (M.L. per 70-80.it)